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Cittadinanza italiana la si può avere per matrimonio e per separazione di fatto dei coniugi intervenuta nel corso del procedimento. Nuove prospettive

marriageLa Corte di cassazione, I^ Sezione, con la sentenza del 17 gennaio 2017, n. 969, ha stabilito un principio importante, che potrebbe notevolmente condizionare il futuro modus operandi della pubblica amministrazione nei procedimenti per il riconoscimento della cittadinanza italiana per matrimonio ai sensi dell’art. 5, Legge 5 febbraio 1992 n. 91.

Sappiamo che la separazione di fatto dei coniugi è considerata dall’amministrazione come una condizione ostativa al riconoscimento della cittadinanza (sempreché, a norma del suddetto art. 5, detta separazione sia intervenuta prima dell’adozione del decreto).

Ne sono bene al corrente gli stranieri che si vedono richiedere, nella lettera di convocazione per il ritiro del decreto, alcune certificazioni da cui risulti l’attualità ed effettività del vincolo coniugale, se non addirittura la presenza fisica del coniuge italiano.

Ciò premesso, analizziamo il percorso logico-giuridico seguito dalla Corte di Cassazione, nella su citata sentenza, partendo dalla conclusione: tra le condizioni ostative all’acquisto della cittadinanza italiana, ai sensi dell’art. 5 della l. 91 del 1992, come più rigorosamente novellato dalla l. n. 94 del 2009, non può individuarsi la “separazione di fatto” dei coniugi. Le predette condizioni ostative, infatti, non possono fondarsi su clausole elastiche, che come tali potrebbero dare luogo ad applicazioni arbitrarie, bensì su requisiti di natura esclusivamente giuridica, predeterminati e non rimessi ad un accertamento di fatto dell’autorità amministrativa. 

La Corte d'Appello di Firenze, condividendo la sentenza di primo grado, aveva ritenuto irrilevante la separazione di fatto intervenuta tra i coniugi, posto che la legge richiede una condizione ostativa diversa, ovvero la separazione personale giudizialmente accertata.

“La separazione di fatto”, affermava la Corte d'Appello, “ha un carattere di minore stabilità di quella legale, e non può desumersi dalla chiara dizione normativa la sussistenza di un requisito diverso da quello espressamente indicato ed avente un significato giuridico univoco”.

Condividendo la necessità di evitare matrimoni di comodo, il giudice dell’appello si è posto lo scrupolo di accertare che il matrimonio, ad ogni modo, era stato contratto senza il fine fraudolento tipico del matrimonio di conodo, e aveva avuto carattere di effettività; e inoltre, che sussisteva anche l’altra condizione richiesta dalla legge, ovvero la residenza in Italia da almeno due anni.

Avverso tale sentenza, il Ministero dell'Interno presentava ricorso per Cassazione, contestando la violazione dell'art. 5, comma 1, della l. n. 91 del 1992, come modificato dall'art. 1 comma 11 della l. n. 94 del 2009, per il mancato rilievo, come condizione ostativa alla concessione della cittadinanza, della "separazione di fatto": ciò nonostante gli effetti di tale situazione si riverberino in numerose disposizioni legislative, (art. 143 cod. civ. ; art. 570 cod. pen., art. 6 legge n. 184 del 1983).

Secondo il Ministero dell’Interno, il quadro normativo è tale da indurre a ritenere che il termine "separazione personale" indichi soltanto un insieme più ampio entro il quale debbano ricomprendersi tanto la separazione legale, quanto quella di fatto. Ne consegue che, ai fini dell'acquisto della cittadinanza, l'effettiva sussistenza in concreto del rapporto matrimoniale, sarebbe da intendere come requisito imprescindibile.

L’Amministrazione, infine, ha richiamato la giurisprudenza del Consiglio di Stato, sentenza n. 6526 del 2005, per la quale, l'acquisto della cittadinanza richiede non soltanto il matrimonio, ma anche l'instaurazione di un vero e proprio rapporto coniugale.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondata la censura sollevata dal Ministero dell'Interno, ritenendo chiaro ed univoco il tenore testuale dell'art. 5, legge 5 febbraio 1992 n. 91, sia nella formulazione originaria sia in quella novellata per effetto dell'art. 1 comma 11 della l. 94 del 2009.

E’ vero che nel testo originario la locuzione utilizzata dal legislatore era “separazione legale”, mentre con la novella del 2009, tale locuzione è stata modificata con “separazione personale”, ma la Corte Suprema ha evidenziato come la correzione sia stata determinata dal fatto che l'espressione iniziale “separazione legale” era atecnica, e dunque impropria, rispetto alla successiva, “separazione personale”, che effettivamente il legislatore utilizza nel titolo dell'art. 150, nel corpus dell'art. 154 relativo alla riconciliazione e nel testo previgente art. 155 (oggi abrogato in virtù dell'omologazione del regime giuridico relativo ai figli nati nel matrimonio e fuori di esso e sostituito dalla disciplina normativa contenuta nel Capo II del titolo IX).

La differenza tra le due fattispecie astratte "separazione personale" e "separazione di fatto", inoltre, prosegue la Cassazione, “può cogliersi anche nel regime giuridico delle adozioni. L'art. 6 della 1. n. 184 del 1983 prescrive che tra i coniugi che intendono procedere all'adozione non deve essere intervenuta negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto, a conferma della diversità delle due tipologie di allontanamento dei coniugi, confermata anche da un regime giuridico nettamente distinto”.

E’ stata pertanto confermata la pronuncia della Corte d'Appello, che aveva riconosciuto non assimilabilità delle due fattispecie (separazione legale e separazione di fatto).

La Corte di Cassazione ha pertanto concluso “che le condizioni ostative previste nel citato art. 5 non possono essere fondate su clausole elastiche, ma su requisiti di natura esclusivamente giuridica, predeterminati e non rimessi ad un accertamento di fatto dell'autorità amministrativa, come desumibile anche dall'esame delle altre specifiche condizioni interdittive, l'annullamento, lo scioglimento, la cessazione degli effetti civili del matrimonio.”

Si aprono quindi scenari molto interessanti per gli stranieri che hanno presentato domanda di cittadinanza per matrimonio, e nelle more del procedimento, per le ragioni più varie, si sono allontanati dal coniuge italiano. Fermo restando che dovranno sussistere tutti gli elementi in grado di dimostrare che il matrimonio in oggetto non sia stato contratto all'unico scopo di eludere le norme sull'immigrazione, perché in tal caso rientreremmo nell'ipotesi del matrimonio di comodo che non consentirebbe comunque l'acquisto della cittadinanza italiana.

 

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