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Cittadinanza e grado di conoscenza della lingua italiana

Niente cittadinanza se il richiedente non conosce adeguatamente la lingua italiana. Una freschissima sentenza del Tar Lazio affronta argomenti comuni ad un caso di cui si è molto parlato in rete nei giorni scorsi. 

E’ di pochissimi giorni fa la sentenza con la quale il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio,
 Sezione II-quarter, ha respinto il ricorso di un cittadino bengalese avverso il provvedimento con il quale il Ministero dell'Interno, sostenendo che lo stesso non conoscesse bene la lingua italiana, ha rigettato la sua domanda di cittadinanza ex art. 9 della Legge n. 91 del 1992.

Il Tar Lazio, con la suddetta sentenza del 20 marzo 2015, n. 4384, ha ribadito la premessa ormai nota, ovvero il carattere altamente discrezionale del provvedimento che conferisce la cittadinanza italiana per naturalizzazione, ai sensi dell’art. 9 della Legge n. 91 del 1992.

In particolare è stato precisato che la concessione della cittadinanza italiana - lungi dal costituire per il richiedente una sorta di diritto che il Paese deve necessariamente e automaticamente riconoscergli ove riscontri la sussistenza di determinati requisiti e l'assenza di fattori ostativi - rappresenta il frutto di una meticolosa ponderazione di ogni elemento utile al fine di valutare la sussistenza di un concreto interesse pubblico ad accogliere stabilmente all'interno dello Stato comunità un nuovo componente e dell'attitudine dello stesso ad assumersene anche tutti i doveri ed oneri”.

Ha precisato il Tar che affinché sussista detto interesse pubblico è indispensabile non soltanto che l'aspirante cittadino possieda il requisito della residenza decennale, e che manchino elementi ostativi all’accoglimento dell’istanza (es. precedenti penali), ma anche che sussistano degli ulteriori elementi, tali da giustificare "l'opportunità di tale concessione".

“Dunque”, per il giudice amministrativo, “la norma dell'art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 91 del 1992 deve essere intesa come indicativa di una fattispecie affidata a valutazioni ampiamente discrezionali che implicano un delicato bilanciamento di interessi fra l'aspirazione di un residente straniero ad essere pienamente integrato nella comunità nazionale e l'interesse di quest'ultima ad accogliere come nuovi cittadini solo soggetti in grado di rispettarne le regole, ivi comprese quelle attinenti alla solidarietà sociale, nei termini previsti dalla Costituzione".

E' fresco nella memoria il fatto avvenuto a Cairate (Va), della signora indiana Rani Puspha cui il sindaco aveva impedito di prestare il giuramento ritenendo scarso il suo livello di conoscenza della lingua italiana.

In quel caso - a opinione dello scrivente - si era trattato di un abuso, poiché le autorità competenti per legge ad istruire e decidere la domanda di cittadinanza, ovvero Ministero dell'Interno e Prefettura, si erano espresse positivamente concedendo all'istante lo status civitatis.

Il sindaco, pertanto, non era legittimato ad adottare alcuna decisione di natura revocatoria. Nel caso di specie, invece, le cose stanno diversamente: il difetto di conoscenza della lingua italiana è stato valutato come fattore ostativo in sede procedimentale.

Condivisibile o meno, il diniego della cittadinanza proviene dalle autorità legittimate a provvedere. Dal canto suo, il Tar Lazio ha condiviso la posizione adottata dalla Pubblica Amministrazione, ritenendo la conoscenza dell'italiano un elemento essenziale affinché l'aspirante cittadino possa ritenersi compiutamente integrato nella collettività nazionale.

Specifichiamo che il difetto di conoscenza della lingua italiana, nel caso di cui si discute, era stato accertato dalla Questura in sede di colloquio con l’interessato, il quale, in sede di ricorso, ha poi contestato tale accertamento sotto il profilo della competenza professionale degli agenti, posto che tale compito – quello di verificare il livello di conoscenza della lingua italiana – non era pertinente al ruolo da loro ricoperto.

Il Tar Lazio ha motivato su questo punto che i funzionari delle Forze di polizia preposti agli uffici delle divisioni stranieri si relazionano costantemente con gli immigrati e conoscono perfettamente la realtà locale nella quale operano.

Pertanto, tali fattori consentono loro, senza la necessità di dotarsi di ulteriori e specifici titoli professionali, di esprimersi in maniera qualificata sulla circostanza che uno straniero conosca o meno la lingua italiana.

Altro elemento interessante riguarda la mancata valutazione delle controdeduzioni difensive relative al preavviso di diniego ex art. 10 della Legge n. 241/1990. Il Tar Lazio ha affermato che detta norma di legge “impone all'amministrazione di tener conto delle osservazioni, eventualmente corredate di documenti, che la parte preavvisata presenta 'per iscritto' e non - come accaduto nel caso di specie - attraverso la casella di posta elettronica di dipendente del Servizio addetto all'istruttoria della pratica di naturalizzazione”.

In conclusione, “l'inserimento dello straniero nella comunità nazionale è legittimo allorquando l'amministrazione ritenga che quest'ultimo possieda ogni requisito atto ad inserirsi in modo duraturo nella comunità e sia detentore di uno status illesae dignitatis morale e civile”.

Sul punto, viene richiamato un lontano parere del Consiglio di Stato risalente al 19 gennaio 1956, che a giudizio del Tar conserva integra la sua attualità.

 

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