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Sentenza del Tar Lazio sul diniego della cittadinanza per precedenti penali del familiare convivente

Il provvedimento di diniego della cittadinanza italiana è adeguatamente istruito e motivato anche solo in riferimento ai pregiudizi penali dei familiari conviventi dell’istante quando essi, in ragione dell’acquisto della cittadinanza italiana da parte del loro congiunto, potrebbero ottenere un permesso per motivi familiari ovvero non essere soggetti a espulsione. Non si tratta infatti di estendere la responsabilità penale dei familiari all’interessato, ma di preservare la comunità nazionale dal danno che si determinerebbe per effetto dell’applicazione a costoro della disciplina relativa ai parenti del cittadino italiano. È pertanto legittimo il diniego di concessione della cittadinanza opposto al figlio motivato sui precedenti penali del padre con questi convivente”: questo è quanto affermato dal TAR Lazio, sezione I, con la sentenza n. 2478 del 1 marzo 2021.

Con ricorso proposto dinanzi al TAR Lazio veniva impugnato un provvedimento di diniego della cittadinanza italiana giustificato dalla inadeguata integrazione del nucleo familiare del ricorrente nel territorio nazionale e dalla conseguente insussistenza della coincidenza tra interesse pubblico e quello dell'aspirante cittadino.

In via principale, il ricorrente sosteneva la violazione degli art. 9 e ss. L. N. 91/1992 nonché degli art. 3, 10 e 10 bis L. N. 241/1990, per eccesso di potere per travisamento dei fatti, illogicità, carenza di istruttoria e di motivazione, posto che a suo carico non risultavano precedenti penali di alcun genere e che lo stesso aveva tutti i requisiti per ottenere la cittadinanza ai sensi della normativa richiamata. 

L’Amministrazione, infatti, motivava sia il preavviso di diniego, che il diniego definitivo, sulla scorta dei precedenti penali dei familiari: il padre convivente (sul quale risultavano 4 condanne, il deferimento nel 2002 per lesioni colpose oltre ad altre segnalazioni nonché l’espulsione e l’allontanamento dal territorio nazionale) e dei fratelli (uno dei quali non convivente) del ricorrente, dai quali traeva un complessivo giudizio di insufficiente integrazione del nucleo familiare.

Il Tar Lazio ha ritenuto il ricorso infondato.

In particolare, secondo il Collegio, ”il conferimento dello status civitatis, cui è collegata una capacità giuridica speciale, si traduce in un apprezzamento di opportunità sulla base di un complesso di circostanze, atte a dimostrare l'integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta. L’interesse pubblico sotteso al provvedimento di concessione della particolare capacità giuridica, connessa allo status di cittadino, impone che si valutino, anche sotto il profilo indiziario, le prospettive di ottimale inserimento del soggetto interessato nel contesto sociale del Paese ospitante, atteso che, lungi dal costituire per il richiedente una sorta di diritto che il Paese deve necessariamente e automaticamente riconoscergli ove riscontri la sussistenza di determinati requisiti e l'assenza di fattori ostativi – rappresenta il frutto di una meticolosa ponderazione di ogni elemento utile al fine di valutare la sussistenza di un concreto interesse pubblico ad accogliere stabilmente all'interno dello Stato comunità un nuovo componente e dell'attitudine dello stesso ad assumersene anche tutti i doveri ed oneri”.

Inoltre, come ricordato dai giudici amministrativi, lo stesso ricorrente aveva dei precedenti penali a suo carico.

Sempre il Collegio prosegue affermando che “fuori dal perimetro della valutazione effettuata in questa sede è la dedotta violazione del principio della responsabilità penale, atteso che non si tratta di estendere al ricorrente le conseguenze penali dei reati commessi dai membri del nucleo familiare, ma di non potere escludere che la concessione della cittadinanza possa recare danno alla comunità nazionale, per effetto dell’estensione ai familiari del richiedente delle previsioni relative ai parenti del cittadino italiano, ovvero della verifica della sussistenza della coincidenza dell’interesse pubblico con quello del richiedente. Nel caso di specie la scarsa integrazione dei familiari si riverbera anche sullo stesso ricorrente, il quale non risulta, da quanto emerge dalla documentazione acquisita, del tutto esente da mende, e non ha neanche dimostrato un particolare interesse per ciò che comporta l’acquisizione dello status”.

Quanto affermato trova supporto dalla relazione della Questura di Bergamo, la quale affermava che il ricorrente “sconosce totalmente le più elementari nozioni del nostro ordinamento, dei principi cui si ispira nonché le forme di partecipazione democratica, la storia, la geografia e la cultura italiane, non si interessa dell’attualità civile e politica del Paese, non è stato in grado di completare il questionario di verifica della conoscenza della lingua e nozioni di cultura generale”.

Il TAR conclude che il provvedimento impugnato appare adeguatamente istruito e motivato, e, pertanto, il ricorso deve essere respinto, “anche solo con il riferimento ai significativi pregiudizi penali del padre convivente del ricorrente, atteso che dette circostanze escludono una piena e positiva adesione da parte del nucleo familiare alle regole di civile convivenza della comunità nazionale di cui si chiede lo status e depongono per la insussistenza dell’interesse pubblico alla concessione”.

 

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