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Il diniego della cittadinanza fondato sull'appartenenza dello straniero a movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica

Partiamo dal dire che i motivi di diniego della cittadinanza inerenti la sicurezza della Repubblica non debbono essere legati necessariamente a condanne o precedenti penali, o anche solo giudiziari a carico del richiedente, ma possono derivare anche da elementi puramente indiziari, relativi a sue specifiche frequentazioni, alla sua appartenenza a movimenti estremisti (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 3 ottobre 2007 n. 5103) o comunque per la condivisione di valori "che possano mettere in pericolo la comunità nazionale" (Tar Lazio II quater n. 2026 del 2015).

L’argomento è senza dubbio interessante e di grandissima attualità. In un clima sociale e politico dove regna il sospetto verso "taluni" immigrati, fioccano i dinieghi della cittadinanza basati su questa motivazione.

Qui entrano in conflitto, da un lato, la potestà discrezionale della P.A. nei procedimenti inerenti la concessione della cittadinanza, nonché l’interesse dello Stato a non divulgare certe informazioni di assoluta riservatezza sotto il profilo della sicurezza nazionale, e, dall’altro, il diritto di difesa spettante al singolo straniero che si vede negare la cittadinanza, il cui interesse altrettanto meritevole di tutela e riconoscimento è quello di poter conoscere, dalla A alla Z, cosa gli si contesta e di articolare così una difesa. 

Appena un anno fa, il Tar Lazio, sez. II- Quater, con la sent. n. 6321 del 31 maggio 2016, ha annullato un provvedimento di diniego della cittadinanza italiana fondato sui motivi in discorso, affermando che, ferma restando la potestà discrezionale della P.A nel procedimento inerente la concessione della cittadinanza., essa non può negare in via assoluta la produzione della documentazione detenuta per ragioni inerenti le proprie funzioni istituzionali, né tantomeno non ottemperare all’ordine del Tribunale di rendere disponibile tale documentazione, laddove l’accesso si renda necessario per difendere interessi giuridici di chi ne abbia legittimamente titolo (cioè, dello straniero aspirante cittadino).

Il provvedimento impugnato, dunque, si riferiva al fatto che dall'attività informativa esperita fossero emersi elementi riguardanti la contiguità del richiedente a movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica. Tale formula, ha contestato giustamente il ricorrente, impediva di comprendere quali fossero i fatti sulla cui base l’Amministrazione aveva formulato il diniego; senza contare che erano stati del tutto ignorati gli elementi positivi riguardo alla incensuratezza del ricorrente medesimo, alla venticinquennale permanenza nel territorio italiano, al radicato inserimento nella società italiana sotto il profilo lavorativo.


Come si concilia l'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi (art. 3, L. 241/1990), con l'interesse dello Stato alla riservatezza e sicurezza che coprono le informazioni attinenti la sicurezza della Repubblica?

Si era in precedenza affermato che, in questi casi, “il provvedimento di diniego deve ritenersi sufficientemente motivato, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 241 del 1990, quando consente di comprendere l'iter logico seguito dall'amministrazione nell'adozione dell'atto, non essendo necessario che vengano espressamente indicate tutte le fonti ed i fatti accertati sulla base dei quali è stato reso il parere negativo” ( Tar Lazio II quater n. 2453 del 2014).

Ovvero, “ben possono essere esternati con formule sintetiche che, piuttosto che configurarsi meramente apodittiche, hanno l'obiettivo di evitare il disvelamento di notizie che potrebbero compromettere anche solo attività di "intelligence" in corso.

Consolidata, al riguardo, è la giurisprudenza del Consiglio di Stato (tra le tante: Sez. VI, 3 ottobre 2007 n. 5103 e 19 luglio 2005 n. 3841), per il quale “il provvedimento di diniego non deve necessariamente riportare le notizie che potrebbero in qualche modo compromettere l'attività preventiva o di controllo da parte degli organi a ciò preposti, essendo sufficiente l'indicazione delle ragioni del diniego senza dover indicare tutte le valutazioni interne che hanno condotto al giudizio sfavorevole dell'amministrazione”.

Tuttavia, si è anche precisato come non possa ammettersi che venga violato il diritto di difesa dell'interessato, in quanto l'esercizio dei diritti di difesa e garanzia di un processo equo restano soddisfatti dall'ostensione in giudizio delle informative stesse, con tutte le cautele previste per la tutela dei documenti classificati (cfr. Cons. Stato III Sez., n. 6161 del 17.12.2014; Sez. VI 2/3/09 n. 1173; 4/12/09 n. 7637).

La produzione degli atti, nel processo in commento, è stata impartita facendo salve “le cautele ritenute necessarie dalla stessa Amministrazione in ragione della sua natura “riservata”, vale a dire in originale – con tutti gli opportuni stralci ed “omissis” ritenuti opportuni al fine di non disvelare notizie riservate e non pregiudicare eventuale attività di intelligence– ovvero con relazione o rapporto sintetico che riassuma gli elementi rilevanti, senza l’identificazione delle fonti informative”.

Se non che, il Ministero dell’Interno ha comunicato di non poter adempiere a tale incombente in quanto, “l’Organismo originatore ha espresso avviso negativo al deposito in giudizio degli elementi informativi a suo tempo forniti, in ragione delle imprescindibili esigenze di riservatezza connesse con il patrimonio informativo dell’Organismo medesimo, con particolare riguardo alla tutela dei canali informativi e delle modalità operative degli stessi”.

Dunque il Collegio, nella linea dei propri precedenti recenti (TAR Lazio, sez. II quater, sentt. N. 154/2016 e n. 1823/2016), ha ritenuto di dover ribadire che tale impostazione adottata dal competente Organismo era in contrasto:


  • "Con la giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo la quale in presenza di informative con classifica di “riservato” il richiamo al contenuto delle stesse può soddisfare le condizioni di adeguatezza della motivazione, mentre l’esercizio dei diritti di difesa e la garanzia di un processo equo restano soddisfatti dall’ostensione in giudizio delle informative stesse con le cautele e garanzie previste per la tutela dei documenti classificati da riservatezza (cfr., ex plurimis, sez. III, n.130/2015 del 20.1.2015)”;
  • “con le risultanze di un articolato parere reso dalla I sezione del medesimo Consesso, nell’adunanza del 16 aprile 2014 (nr. Affare 01835/2013), che proprio su richiesta del Ministero dell’Interno ha chiarito che, sulla base di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni di legge date dall’art.24 della legge n.241 del 1990 e dall’art. 42 della legge n.124 del 2007, si può ragionevolmente affermare che l’Amministrazione, ferma restando l’autonomia decisionale correlata all’esercizio della potestà discrezionale, non può negare in via assoluta l’ostensione della documentazione classificata, prodotta o comunque detenuta per ragioni inerenti le proprie funzioni istituzionali, né tantomeno non ottemperare all’ordine del Giudice di rendere disponibile tale documentazione, laddove l’accesso si renda necessario per difendere interessi giuridici di chi ne abbia legittimamente titolo”;
  • “con le risultanze di un successivo e ancora più recente parere, reso sempre dalla I sezione del Cons. Stato, n.1882 del 13.1.2016, e sempre su richiesta del Ministero dell’Interno: parere in cui è stato ribadito che la legge pone in capo alla Pubblica amministrazione un obbligo di collaborazione con il giudice, che nel caso del processo amministrativo è rafforzato dal fatto che la P.A., oltre ad essere parte del procedimento, è essa stessa detentrice di elementi di prova che si trovano nella sua disponibilità e che essa pertanto deve porre a disposizione del giudice”;
  • “con l’art.113 della Costituzione. E difatti se fosse consentito all’amministrazione addebitare a taluno una data condotta (pur contrastante con i valori repubblicani) senza poi fornirne, in sede processuale, indizio alcuno a sostegno della stessa, ci si troverebbe di fronte ad un atto, sostanzialmente, inoppugnabile”; e ciò non sarebbe compatibile con il principio di democrazia dell’assicurare “a tutti e sempre, per qualsiasi controversia un giudice e un giudizio” (così, Corte costituzionale n. 18/1982), ulteriormente escludendo che vincoli derivanti da valutazioni compiute da organi amministrativi possano condizionare la libertà di apprezzamento del giudice sul punto centrale della controversia e, quindi, compromettere la possibilità per le parti di far valere i propri diritti dinnanzi all’Autorità giudiziaria con i mezzi offerti in generale dall’ordinamento giuridico (Corte cost. n. 70/1961).


L'argomento in discussione rimane molto spinoso, poco incline a soluzioni univoche. Dove termina il potere di segretezza dell'Amministrazione, all'emergere nell'istruttoria di elementi incompatibili con la sicurezza dello Stato, e dove inizia, invece, il diritto dello straniero a potersi difendere con cognizione di causa?

L'unica certezza è proprio la sensibilità alla materia dell'opinione pubblica, e degli stessi Tribunali. Concludiamo, al riguardo, con un passo di un'altra sentenza del Tar Lazio, sez. II-Quater, la  n. 2915 del 7 marzo 2016: "Peraltro, l’attuale momento storico di allarmante recrudescenza di fenomeni terroristici ed estremisti d’ispirazione sedicente nazionalista e/o religiosa rende ancor più comprensibile la particolare prudenza e cautela che ispira l’azione amministrativa nel settore de quo". 

 

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